Ritorno a/da Genova

  • Posted on: 22 July 2021
  • By: Anonimo (non verificato)

Stefano Galieni*

Venti anni costituiscono una distanza immensa nell’era digitale in cui tutto si consuma rapidamente. Ma ancora, soprattutto per chi è figlia/o del secolo scorso, resta una difficoltà a far divenire storia questa distanza. Non è cronaca e non è storia, non permette ancora analisi che vadano oltre la memorialistica, ma lo stesso raccontare quell’”io c’ero” nei giorni drammatici e splendidi del G8 a Genova è insufficiente per spiegare. E quanto accaduto nel ventennale però aiuta a fornire chiavi di interpretazione. Intanto le due assemblee (una nazionale e un’altra internazionale) hanno timidamente posto l’idea di ricostruire interconnessioni praticabili. La parola che più si è udita negli incontri è stata “convergenza”, intesa come ricerca, come spazio plurale di azione e ascolto, come modalità di riprendere un cammino interrotto brutalmente. “Voi la malattia noi la cura” veniva sintetizzato in tale slogan il punto di analisi (peraltro riprendendo la frase di un film statunitense “Cobra” con Sylvester Stallone del 1986 che poco ha di progressista). Un punto di analisi che – in epoca di pandemia – è evocativa e coglie il segno, ma che necessita di essere corroborata da proposte e da una ricostruzione di senso. E in molte/i nelle due assemblee ci hanno provato, partendo dal particolare della propria attività sociale o politica, dal proprio ruolo in un contesto internazionale frastagliato, il tutto con l’idea di ridarsi appuntamenti, di ricostruire spazi stabili ma non granitici di mobilitazione. Lo sciopero previsto per il 18 ottobre da parte del sindacalismo di base in Italia e la manifestazione che si propone di fare il 30 ottobre in occasione della riunione a Roma del G20, sono due delle tante tappe indicate. In mezzo le iniziative femministe per il 25 settembre, le giornate di mobilitazione promosse contro i colossi dell’agroalimentare e in difesa di una agricoltura compatibile, tante idee che debbono però riempirsi di gambe e teste anche nuove, capaci di sovvertire la stasi attuale non solo italiana. Alle assemblee – l’età media era eccessivamente alta – sono reintervenute/i molte/i di coloro che 20 anni fa hanno avuto un ruolo da protagonista. Poche le voci nuove. E non basta come giustificazione il fatto che questi venti anni ci hanno dato ragione e i temi che ponevamo allora sono di maggiore attualità oggi. Il lavoro di ricostruzione messo in atto da chi ha organizzato la due giorni è stato prezioso e ha prodotto buoni risultati. In tante/i ci si è rincontrati e ricontati sotto un tendone non per assediare una “zona rossa” (come emerso in più di un intervento l’intera UE è una zona rossa), ma per cercare soluzioni condivise e praticabili. Resta un immenso dubbio. Nel luglio 2001 a Genova – e l’anticipazione era giunta a Napoli il 17 marzo – quella generazione ha perso l’innocenza ed è divenuta diffidente. Si è, non solo dopo e a causa della brutalità della repressione, atomizzata, ha rinunciato o è stata respinta dalla politica. Molte/i con le ferite non solo nel corpo sono tornati a casa, chi è rimasto si è molto spesso chiuso nelle proprie appartenenze.
La vera sconfitta, più che nelle botte e nei lacrimogeni che hanno disperso e disperato ogni forma di partecipazione, ha dato i suoi frutti velenosi dopo. Se il “movimento dei movimenti” era in grado di tenere nella sua agenda uno spettro ampio di ragioni per cui mobilitarsi: dal lavoro, all’ambiente alla sovranità alimentare, alla libertà di movimento, al rifiuto della guerra e alla mobilitazione per la redistribuzione delle risorse, per citarne alcune, dopo le cose sono cambiate. Ci sono state magnifiche e forse più grandi mobilitazioni in difesa dei diritti del lavoro, contro guerre asimmetriche e terrorismi di ogni tipo, manifestazioni antirazziste e femministe che rivendicavano diritti ma che hanno reso lentamente ma inesorabilmente tutto più chiuso in settori destinati agli addetti ai lavori, alle esperte e agli esperti, perdendo non solo in spontaneità ma in capacità attrattiva che permetteva di superare gli steccati.
E – si respirava anche vent’anni dopo – perse in breve tempo l’innocenza anche quella parte della politica e del mondo sindacale che fece la scelta di schierarsi dentro i movimenti. Non nei giorni drammatici di Carlo Giuliani, della Diaz e di Bolzaneto ma negli immediati anni a venire, quella sinistra di alternativa a cui veniva riconosciuta internità in un percorso dove già serpeggiavano pulsioni di rifiuto tout court delle istituzioni, perse, per propri errori e per la disgregazione che ne seguì, anche la capacità di intercettare tante nuove forme di protagonismo. Molti errori potevano, col senno del poi, essere evitati. Alcuni, si dovesse ricostruire un contesto favorevole, vanno evitati oggi. Occorrerà conservare la capacità di entrare nei linguaggi, nelle culture politiche che via via si sono costruite senza dover rinunciare alle proprie ma riprendendo l’antica pratica della reciproca contaminazione. Occorrerà saper rinunciare ai settarismi da purismo principalmente estetico, di chi rifiuta di confrontarsi col presente e, contemporaneamente, non accettare la logica cinica che nei contesti più disparati, continua a prevalere. Quella secondo cui, in nome di una qualsiasi forma di rappresentanza istituzionale, tutto o quasi è lecito, poco contano programmi, proposte, in cui non esistono limiti invalicabili ma in cui si conferma la immutabilità sistemica dell’ordine delle cose, barattandola con un limitato diritto di tribuna, forme di opposizione più o meno sostanziali ma a sovranità limitata o pressoché ornamentali.
Questo comporta a livello nazionale ed europeo la possibilità di presentare proposte, esprimere un parere contrario, svolgere un mandato ispettivo, ben sapendo quali sono i limiti entro cui agire per non disturbare eccessivamente il manovratore. Un meccanismo ancora più privo di prospettiva se applicato nelle grandi città e regioni dove, in cambio della possibilità di eleggere un consigliere – quando va bene – si rinuncia ad ogni forma di conflitto diretto. Uno scambio a cui non è estraneo una parte del mondo della sedicente società civile, anche apparentemente radicale nei contenuti, ma che per continuare ad operare necessita di vedersi finanziati progetti, di non veder toccati i propri spazi sociali, di essere riconosciuto come interlocutore istituzionale.
Quanto c’entra questo con “Genova 20 anni dopo”? Il 20 luglio di quest’anno, Piazza Alimonda – per molte/i dei presenti “Piazza Carlo Giuliani, ragazzo” non ha visto soltanto l’incontro fra nostalgici e sentimentalmente coinvolti. Una parte consistente dei presenti non era nata 20 anni fa o aveva pochi anni per scendere in piazza. Nonostante tante rimozioni la cesura di quei giorni è memoria trasmessa, carne viva che si è riprodotta, con meno vincoli e anche con qualche strappo. A chi fa informazione, a chi prova ancora a “cambiare lo stato di cose esistenti” spetta l’onere di imparare a parlarci con quelle ragazze e quei ragazzi. Stiate tranquilli non mordono, spesso ascoltano, magari giudicano, colgono, con la freschezza generazionale tanto lo spessore quanto i limiti del racconto di chi c’era, ma intendono non arrendersi. Se ne sbattono delle nostre divisioni, dei personalismi, delle tante bandiere diverse e di ogni forma di demonizzazione fra soggettività in cui si è stati capaci di frantumarci. Nessuna generalizzazione è possibile, coesistono nelle istanze di cui si fanno portatrici e portatori, forme legate all’antagonismo senza alternativa e elementi di realismo. Ma si tratta di una generazione che non va tradita, che se è giunta dalle città più remote del paese, per ascoltare Haidi Giuliani, entrare in una piazza che è ormai storia di questo paese, mescolarsi rischiando anche i contagi per ritrovarsi, beh si tratta di uno stimolo a cui forse molte e molti di noi non sono preparati. Coloro per cui la “Storia è finita” difficilmente potranno interloquire con questa – di certo minoranza – di persone attive che considerano i salvataggi in mare di migranti o la salvaguardia di ambiente e territorio parte centrale del proprio agire, la lotta contro il patriarcato iperdominante contro il precariato ma anche in difesa del diritto di amarsi comunque. Spetta farlo ad una sinistra, radicale nei contenuti e con dimensione almeno continentale, che li consideri ricchezza ed energia nuova con cui non applicare criteri di cooptazione. Si torna da Genova con l’idea che un altro mondo sia urgente e possibile oltre che necessario. Reduci del G8 e nuove generazioni, partendo da questo, una prospettiva comune possono anche provare a costruirla. Un’avvertenza, non ci possono essere fraintendimenti, si può fare se qualcuno non pretende di essere, di questo percorso, il detentore di potere.
 
* da https://transform-italia.it/