Un materialismo queer è possibile?

  • Posted on: 23 April 2021
  • By: Anonimo (non verificato)

Federico Zappino
Lettera a Rifondazione comunista a margine del dibattito sul Ddl Zan
Salvo alcune eccezioni non prive di significato, la maggior parte dei movimenti e dei partiti di sinistra anticapitalista attualmente esistenti al mondo mostra sensibilità e impegno contro l’oppressione e la violenza in tutte le loro forme, tra cui anche quella esperita dalle minoranze di genere e sessuali. Tutto ciò è leggibile come parte di una più ampia presa di distanza da ogni possibile analogia con le traduzioni più autoritarie, o totalitarie, delle ideologie marxiste e comuniste.
Tuttavia, nessuno di tali movimenti o partiti può dirsi immune da una concezione di tale oppressione e violenza come un problema di ordine strettamente culturale. Questo spiega perché la natura dell’impegno profuso dai movimenti e dai partiti della sinistra anticapitalista nei riguardi dell’oppressione e della violenza di genere e sessuale non è di tipo materialista, ma è semplicemente una versione “di sinistra” dell’impegno già profuso dall’ideologia liberale e borghese. Anziché privilegiare esclusivamente la dimensione della libertà individuale, l’esponente di questo o quel movimento o partito anticapitalista tenderà a focalizzarsi maggiormente sulla questione dell’eguaglianza, intesa sempre in modo formale, anziché sostanziale, in relazione all’eguale estensione di diritti da parte dello stato ai cittadini, alla parità di trattamento giuridico e salariale, sempre da parte delle istituzioni, o alla condanna dei pregiudizi e delle violenze, intesi però come fenomeni da deplorare in quanto contrari alla civiltà fondata sul pluralismo etico, e non come espressioni di un modo di produzione, oltre che di rapporti di forza che devono essere sovvertiti.
Ciò significa che i partiti e i movimenti che si ispirano al materialismo e che mostrano sensibilità e impegno nei riguardi della diseguaglianza e della violenza di genere e sessuale continuano a non dire e a non fare nulla di materialista a proposito delle cause, e delle soluzioni, di un’oppressione che attraversa ed eccede quella di classe marxianamente intesa. Le volte non rare in cui si esprimono in proposito, mobilitano infatti un lessico e un immaginario che contrasta proprio con le premesse teoriche del materialismo stesso. Una delle principali differenze tra il materialismo e il liberalismo (il quale è una traduzione pratica dell’idealismo) consiste nella maniera radicalmente antitetica di rapportarsi alle diseguaglianze. Se per il materialismo le diseguaglianze sono prodotte socialmente, per il liberalismo sono invece naturali, e senza dubbio naturalizzate. Ma soprattutto, se per il materialismo le diseguaglianze si sovvertono abolendo il rapporto di forza che le produce, per il liberalismo si alleviano invece riconoscendo diritti.
Questo ci consente di rispondere alla domanda: perché l’anticapitalismo contemporaneo mutua dal lessico liberale le parole per contrastare la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale? La risposta è semplice: lo fa perché a oggi mostra gravi reticenze nel riconoscere la necessità materialista di sovvertire la produzione sociale delle diseguaglianze di genere e sessuali – alla pari delle diseguaglianze economiche genericamente intese – e preferisce limitarsi a riconoscere e tutelare giuridicamente una serie di “differenze” o di “diversità” che esistono a prescindere da un rapporto sociale improntato alla diseguaglianza, e sul quale l’anticapitalismo non si fa troppe domande. (Una lesbica materialista come Monique Wittig e un omosessuale comunista come Mario Mieli hanno già spiegato una quarantina d’anni fa perché l’anticapitalismo non si fa domande in merito: perché ciò dividerebbe la classe, collocando i compagni dalla parte degli oppressori in seno al rapporto sociale di genere e sessuale.) Il problema è che l’anticapitalismo diventa in questo modo l’ancella del liberalismo. Mancando di pronunciare parole materialiste sull’oppressione di genere e sessuale – mutuandole ad esempio dalle teorie materialiste femministe, lesbiche, gay e trans – l’anticapitalismo contemporaneo le mutua paradossalmente dalla razionalità dominante, responsabile dell’ingente quantità di danni sociali che qualunque approccio materialista mira giustamente a contrastare. Così facendo, l’anticapitalismo tira acqua al mulino proprio dell’ideologia contro cui si batte, e l’effetto è più o meno quello del criceto che corre sulla ruota dentro la sua gabbietta.
Questa paradossale condizione schizoide dell’odierno anticapitalismo, in particolare in rapporto alla diseguaglianza e alla violenza di genere e sessuale, si deve al radicale occultamento di ciò che (in un libro che si chiama Comunismo queer) ho definito “modo di produzione eterosessuale”. Nel riferirmi all’eterosessualità come a un “modo di produzione” interpreto chiaramente l’analisi di Marx a modo mio: mi sembra il minimo se si considera che un compagno etero non si sforza di leggere nemmeno cento paginette de Il pensiero eterosessuale di Wittig mentre io devo leggermi le migliaia di pagine scritte da Marx e da Engels se voglio ambire a essere tenuto in considerazione.
Quando Marx parla di modo di produzione pensa alla razionalità che presiede all’insieme delle relazioni sociali produttive e all’organizzazione dei mezzi di produzione: per Marx, la “produzione” coincide con la trasformazione della materia in un bene, e consta di un processo circolare che può sia, semplicemente, riprodurre se stesso, sia tendere alla formazione di plusvalore. Il modo di produzione è dunque il criterio interamente sociale – che Marx intende come contrapposto all’essenza – per mezzo del quale la materia viene trasformata in un bene, acquisendo valore. In altre parole, se c’è un modo a informare questa produzione, ciò significa che in questo processo di trasformazione della materia è indiscutibilmente all’opera un determinato criterio che promana dal modo in cui sono organizzate le relazioni sociali, ed è volto a riprodurle. Marx, chiaramente, non contemplava i corpi come suscettibili di questa produzione, descritta in questi termini. Nella mia teoria del “modo di produzione eterosessuale”, la materia che subisce un processo di trasformazione e di valorizzazione è invece proprio la materia corporea. L’eterosessualità è il modo, o la razionalità, che presiede alla trasformazione dei corpi in generi e alla produzione della materia corporea, in un bene. Ed esattamente come la produzione in Marx, anche la produzione eterosessuale opera su due fronti: da un lato, serve in modo indipendente a riprodurre se stessa, e dunque a conservare l’ordine eterosessuale dei generi; dall’altro, è funzionale alla creazione del plusvalore.
La mia tesi è che sia insita nel modo di produzione eterosessuale non solo la produzione della diseguaglianza di genere e sessuale, ma la produzione della diseguaglianza sociale in senso ampio. E il motivo per cui l’anticapitalismo dovrebbe rimodularsi sulla base di un proposito di sovversione del modo di produzione eterosessuale risiede nel fatto che questo è storicamente e logicamente antecedente al modo di produzione capitalistico. Il capitalismo, in altre parole, si innesta su una relazionalità sociale già densamente strutturata dalle differenze di genere e sessuali. Ciò non significa risalire a un qualche remoto e nebuloso passato: occorre semplicemente osservare che nelle società in cui viviamo, tardo-capitalistiche, tutti siamo o uomini o donne. Se vogliamo ambire a una qualche forma di riconoscibilità e inclusione sociale, tutti dobbiamo sottometterci alla catena della produzione eterosessuale, benché dovrebbe essere evidente che alcuni possono trarre evidenti vantaggi da questa sottomissione, come dimostrano (solo per fare due esempi) gli stupri e le uccisioni delle donne agiti sempre dagli uomini, o le violenze di ogni ordine e grado subite da gay, lesbiche e trans, agite anche in questo caso, sempre dagli uomini. La produzione degli uomini e delle donne in quanto tali si dà in modi che sono indistinguibili dalla diseguaglianza, dalla gerarchia e dalla violenza. Ciò accade perché il modo di produzione eterosessuale, per poter operare e riprodursi, si fonda sulla trasfigurazione di differenze anatomiche ben determinate in principi di classificazione e gerarchizzazione sociale.
Torniamo a chiederci: perché l’anticapitalismo contemporaneo mutua da un lessico già esistente, quello liberale, le parole per contrastare la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale? Lo fa perché nonostante concepisca giustamente ogni relazione e ogni diseguaglianza sociale come prodotta dalla società, concorda con il liberalismo nel concepire nei termini fuorvianti di una “differenza sessuale” inerte, naturale e presociale ciò che ho appena schematicamente illustrato nei termini di un modo di produzione. Che questo modo di produzione eterosessuale sia precapitalistico – ed è questo che manda in crisi gli assunti di base dell’anticapitalismo – non autorizza a definire i suoi prodotti (i generi e le relazioni sociali di genere) come inerti, naturali e presociali. È dalla produzione eterosessuale dei generi che dipendono direttamente fenomeni sociali come l’omotransfobia e la misoginia, ai quali, nel discorso comune, ci si riferisce in modalità ingannevoli, che ne occultano la matrice produttiva. Farli passare come crimini strettamente individuali, e troppo spesso come problemi di ordine psicopatologico, di odio o di paura irrazionale, serve sia a rendere irrazionale l’azione degli esecutori materiali (gli uomini), sia a impedire qualunque trasformazione sociale.
Ma c’è di più. È dalla produzione eterosessuale dei generi e del rapporto sociale di genere che deriva l’insieme delle risorse materiali e simboliche di cui il capitalismo necessita per affermarsi e riprodursi incessantemente: ciò è dimostrato dalla persistente divisione sessuale del lavoro, dalle varie e complesse forme di segregazione occupazionale e dallo sfruttamento del lavoro sessuale e di genere. E nonostante l’adozione di questa prospettiva teorica potrebbe fare una grossa differenza per la politica anticapitalista, quest’ultima preferisce continuare a mutuare dal liberalismo le litanie sull’“odio per la diversità” o a battersi per la “tutela delle differenze”, finendo così per tutelare solo ed esclusivamente le diseguaglianze, lavorando di concerto con il liberalismo nell’ostacolare qualunque trasformazione sociale.
È possibile che sottesa a questa strategia sia la convinzione errata per cui un approccio più radicale condannerebbe le sinistre “radicali” a insuccessi ancora maggiori, specialmente alla luce del fatto che, come dimostra dal secondo dopoguerra la scienza politica, un movimento, o un partito, ha tante più possibilità di ottenere consensi quanto più si rivela catch-all, cioè “pigliatutto”. Tanto minore sarà il bagaglio ideologico e il riferimento a classi specifiche, tanto maggiore sarà l’elettorato, reclutato in modo trasversale alle classi, nella popolazione in generale. Questo è ciò che hanno fatto ininterrottamente i grandi partiti di massa, dal secondo dopoguerra a oggi, spingendo gradualmente (ma inesorabilmente) ai margini della rappresentanza i partiti portatori di specifici interessi di classe. Così facendo, tali partiti hanno costruito come ineluttabili e insuperabili quelle che per i gruppi sociali oppressi erano le strutture dell’oppressione, mascherando la loro ideologia dietro alla gestione apparentemente post-ideologica del “reale”. Ma nel momento in cui i partiti e dei movimenti della sinistra radicale scimmiottano questo approccio, cosa ottengono? La risposta è semplice: nulla. In questi termini, infatti, non può esistere una sinistra radicale.
Qualunque progetto di rifondazione di una sinistra radicale non può ambire a un consenso trasversale tra i gruppi oppressi rifacendosi però allo stesso stratagemma con cui i partiti di massa si sono rapportati alla popolazione in generale, ossia occultando il proprio intento ideologico, che, nel caso dei partiti e dei movimenti di sinistra che oggi si definiscono “radicali”, consiste nella costruzione del modo di produzione capitalistico come origine di tutte le forme di oppressione alle quali contrapporre un generico anticapitalismo che però si trova costretto a mutuare dalle ideologie conniventi col grande capitale le parole per dire tutto ciò che sfugge alla sua logica basilare. In sé e per sé, i partiti di sinistra non rappresentano infatti alcuna lotta specifica contro nessuna specifica oppressione, dal momento che l’attenzione nei riguardi del rapporto tra capitale e lavoro è vana se non è essa stessa attenzione nei riguardi della totalità dei rapporti sociali fondati sulla diseguaglianza e sulla violenza che strutturano e articolano il rapporto tra capitale e lavoro – che strutturano, cioè, la relazione tra le parti di questo rapporto. Al di là del modo in cui possiamo definirle dal punto di vista nominale, per distinguerle da quelle moderate e dichiaratamente liberiste, le sinistre radicali dimostrano una concezione tutt’altro che radicale, ma piuttosto superficiale, delle oppressioni che pure dovrebbero combattere. Una superficialità calcolata, chiaramente, dovuta a una volontà di occultare la pluralità dei modi di produzione che confluiscono in ciò che, superficialmente, definiamo “capitalismo”. Ed è proprio questa superficialità a contribuire alla consegna del mondo intero alla violenta minaccia rappresentata dall’ascesa al potere delle destre e del consenso che non di rado riescono a riscuotere anche tra le minoranze. Non dovrebbe sorprendere, ma certo dovrebbe preoccupare che i tentativi compiuti da alcuni progetti di sinistra anticapitalista di recuperare il proprio elettorato – che da tempo vota per le destre xenofobe e neofondamentaliste – si fondino su una ostentata, e opportunistica, concezione delle questioni di genere e sessuali che ricalca proprio quella delle destre, a riprova del fatto che nessun partito o movimento di sinistra anticapitalista, finora, sa dire nulla di materialista in proposito. Se non è stucchevolmente liberale, ciò che dicono i partiti o i movimenti anticapitalisti è squallido e reazionario. E se è facilissimo scorgere cosa c’è che non va nei discorsi anticapitalisti reazionari, più difficile è invece scorgere cosa c’è che non va nei discorsi anticapitalisti e, paradossalmente, liberali.
È fin troppo facile, a questo punto, capire che sottesa alla necessità di mutuare dal liberalismo parole per dire un’oppressione non riducibile al conflitto tra capitale e lavoro è la vecchia e presunta distinzione tra l’oppressione materiale (della quale si occupa il materialismo) e l’oppressione culturale (per la quale può andare bene che se ne occupi una qualunque branca dell’idealismo). E sul punto occorre ripetersi, occorre ribadire che questa distinzione non ha alcun senso di esistere e mina alle basi la stessa lotta anticapitalista: l’elevazione del modo di produzione capitalistico a unico modo di produzione dell’oppressione e della diseguaglianza, al limite affiancato da goffi, quanto ostentati, tentativi di non mostrare totale indifferenza nei riguardi di “altre” forme di oppressione, “diverse” rispetto all’oppressione di classe, sortisce l’unico effetto, per i movimenti e i partiti della sinistra anticapitalista, di non pervenire mai alla comprensione generale del fatto che è a partire da specifiche condizioni di violenza e di oppressione di per sé non capitalistiche che il capitalismo poi deriva e modella le diverse forme di sfruttamento e di esclusione, riproducendo specifiche condizioni di vulnerabilità economica e sociale. Come dimostra l’attuale scenario globale, è solo a proprio rischio e pericolo che i movimenti e i partiti di sinistra anticapitalista continuano a trascurare questa limpida constatazione: ciò che ottengono, in cambio, è una frammentazione sociale che sfiora ormai le soglie dell’irreversibilità. I gruppi sociali minoritari e oppressi non trovano infatti alcuna motivazione per convergere verso una comune visione anticapitalista, proprio perché non viene considerata affatto “comune”. Dai movimenti e dai partiti della sinistra anticapitalista, in altre parole, non si aspettano più nulla, e tantomeno più nulla di buono. Ciò è testimoniato dall’esistenza di una pluralità di movimenti la cui stessa esistenza sta lì a indicare che l’anticapitalismo genericamente inteso non ha la forza di costituire, di per sé, il comune denominatore della pluralità delle lotte, e che è piuttosto ogni specifica lotta a detenere il potenziale, tra i molti altri, di un esito anticapitalista.
Qualcuno ha mai avuto il buon gusto di chiedersi come mai, nel bel mezzo di una delle fasi più feroci del capitalismo, emergano così tanti movimenti che necessitano di focalizzare l’attenzione sulla violenza e l’oppressione di genere, sessuale, razziale – così come anche su quella sistematicamente esperita dalle persone con disabilità, o su quella perpetrata nei riguardi dei non umani o dell’ambiente, come testimoniato dalle lotte antispeciste e da quelle contro il cambiamento climatico? La risposta, per molti, consiste nel dire che tali movimenti emergono proprio per distrarre dal conflitto tra capitale e lavoro, così da frammentare “la classe” e renderla più debole sul fronte dell’anticapitalismo – cosa che potrebbe anche essere vera, se si considera che è spesso difficile cogliere un po’ di anticapitalismo in ciascuno di quei movimenti. Ancora più vero, però, è che la simultanea necessità di queste lotte, connessa alla effettiva frammentazione e all’impotenza istituzionale (testimoniata dal fatto che la distribuzione del potere, a livello globale, segna un vantaggio schiacciante a favore di una ricombinazione di neoliberismo e autoritarismo) sono state prodotte proprio dalla storica noncuranza dei partiti e dei movimenti della sinistra radicale, che anziché porsi come campi di convergenza comune per lotte specifiche, hanno declassato ogni altra lotta che non fosse strettamente concepibile “di classe” al rango di stratagemma borghese di distrazione – oppure, hanno usato ciascuna di quelle soggettività politiche a mo’ di massa di manovra per continuare sostanzialmente a gerarchizzare le oppressioni tra primarie e secondarie, il tutto condito da elevate dosi di maschilismo eterosessista e cattiva coscienza bianca. Questo secondo atteggiamento possiamo vederlo dissimulato, oggi, nelle posture apparentemente inclusive o intersezionali di questo o quell’esponente anticapitalista. Tuttavia, esulando dalla situazione italiana, in cui i partiti di sinistra radicale sono da tempo extraparlamentari, gli insuccessi collezionati dagli sforzi di Melenchon in Francia, di Corbyn in Gran Bretagna e di Sanders negli Stati Uniti testimoniano che non è più sufficiente un approccio apparentemente inclusivo o intersezionale, forse animato dalle migliori intenzioni, ma comunque sempre benedetto dal maschio bianco eterosessuale di turno, per mascherare la salda persistenza di un anticapitalismo modellato sulla gerarchia tra oppressioni economiche, derivate dal modo di produzione capitalistico, e oppressioni non economiche, derivanti da presunti fenomeni culturali residuali. Che sia cosciente o meno, la preservazione della priorità del modo di produzione capitalistico e della gerarchia tra le oppressioni sarà forse utile a far saltare un po’ di persone, altrimenti spacciate, sul carro dei non-del-tutto-spacciati, ma non certo a incidere sulle vite oppresse, cioè su quelle definitivamente spacciate, ovunque si trovino nel mondo. Al contrario, questa strategia massimizza la loro oppressione proprio perché la coscienza che la anima è invariabilmente la stessa del soggetto che mira a preservarsi degli spazi e delle relazioni in cui compensare il deficit di potere signorile e padronale che non ha in fabbrica, in ufficio e in qualunque altro luogo o rapporto produttivo, anziché ambire alla costruzione di un mondo privo di signori e di padroni, in qualunque ambito della vita.